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È una delle carni più pregiate, costose e – a quanto dicono – buone del mondo. E porta con sé storie di massaggi, allevamenti a birra e musica classica. Stiamo parlando del manzo di Kobe, pregiatissima carne giapponese per non tutte le tasche. Scopriamola meglio assieme.

Foto by iStock

Storia del “manzo di Kobe”

Prima ancora di dire che cos’è il manzo di Kobe, parliamo del suo nome. Kobe è in realtà una città del Giappone, di circa un milione e mezzo di abitanti, situata nell’isola di Honshū, famosa sia per essere stata (per poco a dire il vero) capitale della nazione nel 1180, che – soprattutto – per aver dato il nome al manzo di Kobe. È in questa cittadina, infatti, che si cominciò ad allevare una particolare tipologia di manzo, destinata a diventare la passione di molti amanti della gastronomia.

Per definire il manzo di Kobe dobbiamo fare un passo indietro e parlare di Wagyū, ovvero delle 6 razze di mucca presenti in giappone. Tra queste vi è la Tajima, che è quella da cui si ricava il manzo di Kobe, che – a dire il vero – non è propriamente autoctona, derivando da incroci vari con razze occidentali. Incroci che, però, sono avvenuti oltre 2000 anni fa, il che fa della Tajima una mucca nipponica a tutti gli effetti.

La razza Tajima ha un lucido manto nero, un’imponente stazza e veniva utilizzata per arare i campi, soprattutto in presenza di terreni duri e difficili da dissodare. Sicuramente non veniva mangiata. Fino al 1868, infatti, era vietato consumare carne bovina in Giappone. E anche dopo tale data il consumo di carne era piuttosto limitato (era infatti considerata un alimento da soldati, visto che erano loro che – durante le guerre – erano autorizzati a mangiarla). Le cose cambiarono dopo la seconda guerra mondiale, probabilmente a causa dell’influenza americana nell’area pacifica. Ancora oggi, tuttavia, vuoi per tradizione storica, vuoi per conformazione territoriale, il Giappone rimane un paese con un basso consumo di carne rossa, in cui si preferisce senza dubbio la qualità alla quantità.

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Paletti e restrizioni: un marchio registrato

Ma torniamo al nostro manzo di Kobe. Abbiamo parlato della Tajima, la razza nera giapponese. Per avere del manzo di Kobe, non è sufficiente prendere la carne di un capo di bestiame Tajima. Vi sono dei requisiti da rispettare. Requisiti che sono stati messi nero su bianco, rendendo il “manzo di Kobe” un marchio registrato, depositato in Giappone dall’Associazione per la promozione, distribuzione e marketing della carne di Kobe. Perché si parli di “manzo di Kobe”, quindi:

  • la mucca deve appartenere alla razza bovina di Tajima ed essere nata nella prefettura di Hyōgo (dove vi è anche la città di Kobe ovviamente);
  • l’allevatore deve far parte della federazione della prefettura di Hyōgo;
  • la carne deve provenire da una mucca vergine (scottona), un manzo o un bue;
  • l’animale deve essere macellato al mattatoio di Kobe, Nishinomiya, Sanda, Kakogawa o Himeji, tutti mattatoi presenti nella prefettura di Hyōgo;
  • il taglio deve avere un rapporto di marezzatura (l’infiltrazione e distribuzione di grasso all’interno del tessuto muscolare animale) di 6º livello o superiore;
  • il peso lordo del manzo deve essere di 470 chilogrammi o inferiore.

Ogni animale allevato ha un suo pedigree, ma anche una sorta di biografia ufficiale, in cui vengono registrati gli sviluppi di crescita, eventuali malattie, lo stile di allevamento utilizzato e addirittura una sorta di “albo genealogico” dove sono riportati cenni storici sugli antenati. Tutto questo, tutta questa imposizione di parametri estremamente rigidi, serve a proteggere il manzo di Kobe da eventuali imitazioni e assicurare così una qualità eccelsa di una delle carni più tenere e buone del panorama culinario mondiale che può arrivare a costare anche 1.000 euro al chilo!

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Leggende sul Kobe

“Il manzo di Kobe è così morbido perché viene massaggiato a mano 24 ore al giorno”.

“Il manzo di Kobe è così morbido perché negli allevamenti di Kobe danno da bere birra agli animali”.

“Il manzo di Kobe è così morbido perché negli allevamenti mettono musica classica per rilassare la muscolatura degli animali”.

È probabile che, parlando di Kobe, abbiate sentito qualcuno dire una – o più – di queste cose. C’è qualcosa di vero? O si tratta solo di leggende? In realtà non è facile dirlo con certezza perché ogni azienda mantiene un certo riserbo sulle sue tecniche di allevamento. Qualcosa, però, la si sa.

Partiamo dall’ultimo punto, la musica classica. Questo lo si può escludere senza grossi dubbi. O meglio, niente vieta che in alcuni allevamenti venga fatta ascoltare della musica classica ai lavoratori – e di conseguenza anche al bestiame – ma tutto qua. Non pare vi sia infatti alcuna correlazione tra una eventuale musica filodiffusa e la tenerezza della carne.

Anche il fatto che venga data da bere della birra agli animali sembra più una leggenda che altro. Difficile che a degli animali allevati maniacalmente si decida di dare da bere una bevanda ricca di anidride carbonica e alcolica. È vero, però, che online qualche video e foto di allevatori che danno da bere della birra a dei bovini si trova. Ovviamente non possiamo escludere l’operato del singolo, né che – anche come mossa di marketing – qualcuno abbia deciso di marciare su queste dicerie. Appare però improbabile che questa sia un’usanza comune.

E il massaggio 24 ore al giorno? Qua non possiamo parlare proprio di leggenda, quanto di esagerazione o mala interpretazione. Ogni capo di bestiame viene infatti trattato con estrema cura. Far ammalare o morire un animale può infatti portare a perdite molto gravose di denaro. All’interno delle stalle, quindi, vigono rigorose norme igieniche. Tra queste anche una pulizia quasi costante del mantello delle bestie che vengono spazzolate – vigorosamente – più e più volte al giorno. Si tratta quindi di un “massaggio” fatto per pulizia dell’animale anche se viene poi intensificato durante i periodi invernali per prevenire eventuali crampi da freddo. Sicuramente però, il massaggio umano non influenza la tenerezza della carne che risulta invece così tenera per la percentuale e la distribuzione di grasso, che dà ad ogni taglio un aspetto quasi “marmorizzato”.

Fonti

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